giovedì 24 novembre 2016

Il Parkour nel linguaggio dello spettacolo



Introduzione: Parkour tra realtà e artificio

La spontaneità è una posa difficilissima da mantenere.
(Anonimo)

Il parkour nasce come sistema per prepararsi a superare qualsiasi ostacolo nel mondo reale, sia esso un salto tra due palazzi, il superamento di una panchina nel parco o arrampicarsi giù per la parete di una casa in fiamme. Per questo motivo la pratica del parkour è un allenamento “ad obiettivo” che è funzionale, olistico e richiede continuo adattamento e applicazione da parte del praticante. Oltre a questo, l’arte dello spostamento offre un modo per utilizzare gli spazi pubblici in maniera creativa ed alternativa, per esprimere un modo di essere in relazione con lo spazio che ci circonda.
Anche nel parkour, tuttavia, abbiamo diversi gradi di “applicazione reale”. Ad esempio: prima imparo un volteggio su un materassone in palestra, poi uso lo stesso movimento al parco su di un tavolo da picnic ed infine divento capace di applicare quel movimento ad una situazione totalmente reale come superare un ostacolo sconosciuto mentre fuggo da un cane da guardia. In molti convengono con me nell’affermare che la pratica del parkour dovrebbe renderci progressivamente più in grado di applicare le nostre abilità nel mondo reale. Posso però assicurare che è difficile mettersi in situazioni che richiedono la reale applicazione dell’allenamento svolto perchè è faticoso e comporta un continuo conflitto con se stessi. Più facile è fermarsi e continuare a migliorare le propria prestazione in ambiente controllato perdendo di vista l’orientamento al reale.
Ninja Warrior (abbreviato NW) è un talent show, un programma televisivo. Un gruppo di concorrenti si sfidano per arrivare alla fine di un percorso ad ostacoli nel minor tempo possibile e senza cadere in acqua. Essendo tutto predisposto e conforme a norme di sicurezza, possono permettersi di trascurare cose che nel mondo reale sono importanti e viceversa. Per esempio è importante arrivare in fondo (magari anche alla svelta) ma non è importante non cadere (tanto sotto c’è l’acqua), è importante riuscire ad arrivare sulla piazzola ma non come ci si arriva (tanto è imbottita di gommapiuma), è importante imparare a resistere allo stress sociale della telecamera mentre non è importante riuscire a vedere possibilità alternative al percorso prestabilito.
Monument Crew (abbreviato MC) è una specie di reality show in cui 6 atleti-attori vengono seguiti da una troupe mentre praticano (?) nei pressi di famosi monumenti italiani. Ma non si tratta di un documentario. La differenza tra un documentario ed un reality show è che il primo nasce per descrivere e approfondire un fenomeno culturale cercando di ridurre al massimo l’influenza dell’osservatore sul soggetto, il secondo è un programma di intrattenimento che propone riprese dal vivo di situazioni reali o presunte tali, della vita quotidiana di persone comuni. In MC ampio spazio viene concesso alle dinamiche del gruppo e alla preparazione dei “trick” prima della “run”. Obiettivo della puntata è quello di mettere in pratica la run sul monumento designato, cercando di trovare un’applicazione semplice e finendo per appiattire il fenomeno del parkour per renderlo comprensibile e comunicabile senza troppa fatica.
In entrambi questi programmi, NW e MC, è evidente come la motivazione alla pratica è prevalentemente sostenuta da fattori esterni (ovvero si rinforza quando l’individuo ottiene un riconoscimento dall’esterno). Al termine della performance di NW l’atleta viene gratificato da applausi, luci colorate, una bella classifica sui tempi e il bacio della fidanzata (che i registi stanno bene attenti a non perdersi). In MC il momento della suspense, il pathos creato ad arte dai registi, la speranza di diventare famosi sono probabilmente elementi importanti nel gratificare gli atleti che vi partecipano.
L’artificiosità (intesa come non autenticità) e la motivazione estrinseca, tipici dello spettacolo, sono proprio i due fattori che allontanano gli spettatori da una comprensione autentica del Parkour.

La natura dello spettacolo: una metafora calzante

“Siamo tutti pronti ad abbattere una prigione, quando i cancelli stanno per rinchiudersi su di noi. Ma che succede se non si odono grida d’angoscia? Chi è disposto a prendere le armi contro un mare di divertimenti?
Da “Divertirsi da morire”, Postman 2003

Qualche anno fa ho visto uno show televisivo (ma allora si può fare anche qualcosa di positivo con i media?) che ha solleticato la mia immaginazione per gli anni successivi: Black Mirror. Tra le varie splendide puntate, ce n’è una che si intitola “15 milioni di meriti” e che vi racconterò brevemente perchè trovo che sia una metafora calzante di quello che vorrei spiegare. Sempre che non vogliate guardarvela qui (Youtube: https://www.youtube.com/watch?v=9Nl6PeTNA_4).

Bingham Madsen, per gli amici Bing, vive in un futuro distopico nel quale tutti devono pedalare su delle cyclette per poter dare energia a ciò che li circonda e in cambio ottenere una valuta chiamata Merito. Tutti indossano una tuta da ginnastica grigia e possiedono un avatar virtuale che si può personalizzare con vestiti per pochi Meriti. In questo mondo le persone sono costantemente circondate da schermi con programmi televisivi e pubblicità e, se si tenta di chiudere gli occhi, un rumore fastidioso e un avviso obbligano a tornare alla visione.  Le persone dormono in cubicoli cosparsi di schermi: spendendo dei Meriti è possibile saltare le pubblicità, e i Meriti servono per qualsiasi servizio, dal dentifricio al cibo. Due tra i programmi che vanno per la maggiore sono "Wraith Babes", una trasmissione pornografica, e "Hot Shots", un seguitissimo talent show. Bing è annoiato da questo tipo di società e passa le giornate nell'indifferenza totale.

Guardando la puntata il mio pensiero va a due grandi scrittori del secolo scorso, Orwell e Huxley, che hanno prospettato per noi un futuro minaccioso. Mentre il primo (in “1984”) temeva l’avvento di un Grande Fratello, un potere che opprime e controlla con la forza della tecnologia, il secondo (in “Il mondo nuovo”) ci metteva in guardia da una dittatura democratica che controlla i propri cittadini non attraverso le punizioni ma elargendo  i piaceri, scenario forse più attuale.
Altro grande saggio cui non posso non pensare è “La società dello spettacolo” che Debord, intellettuale di formazione anarchica e marxista, scrisse nel 1967. Emanuele Isidori lo riprende nel suo articolo dal titolo “la comunicazione spettacolarizzata: una riflessione pedagogica tra Debord e YouTube”, ci offre numerosi spunti di riflessione.
Nella società prefigurata da Debord una comunicazione, resa perenne spettacolo, è così pervasiva da influenzare tutti gli ambiti della vita umana, dalla famiglia e al lavoro, dai sentimenti alle aspirazioni.
Tutto questo ha inizio quando la produzione industriale smette di realizzare prodotti “autentici” (il cui valore dipende dal lavoro necessario per realizzarlo e/o dalle materie prime utilizzate) per concentrarsi su prodotti il cui valore è definito sulla base di come essi appaiono. La volontà del cliente è che il prodotto contribuisca, principalmente, allo spettacolo della sua vita. Si pensi, ad esempio, a come il valore commerciale di un prodotto possa variare in base a design o brand.
Nella società dello spettacolo, tutto viene realizzato e vissuto solo in funzione di come verrà percepito dagli altri soggetti-spettatori. L’uomo contemporaneo cessa di valere per quello che “è” ed inizia a valere per come “appare”. Anche i valori, una volta permanenti e duraturi, diventano instabili e vengono adattati ad un sistema di apparenze indefinito e mobile. Questa spettacolarità lo getta in uno stato di perenne crisi di identità che rasenta l’incapacità di vivere un’esistenza autentica – sia individualmente che socialmente – e spiritualmente profonda, perché sempre banalizzata e resa superficiale dalla prostrazione alla “deità” dell’apparenza (Menduni, Nencioni & Pannozzo, 2011 in Isidori 2015).
Queste dinamiche sono sotto gli occhi di tutti noi oggi, ma si vedono molto bene nella visione amplificata diretta da Euros Lyn nella puntata di Black Mirror che continua così.

In bagno Bing origlia Abi, una donna la cui voce trova bellissima, mentre canta una vecchia canzone forse ormai dimenticata: lo stile è completamente diverso dalle canzoni pop proposte da Hot Shots. Lui la incoraggia a partecipare al talent show, che offre alle persone la possibilità di uscire da questa realtà simile alla schiavitù per raggiungere fama e ricchezza. Abi, tuttavia, non ha abbastanza Meriti, inoltre ha la sensazione che non riuscirebbe a cantare bene sotto pressione. Bing la persuade, convinto che in quel mondo non ci sia nulla che valga la pena comprare, e acquista per lei il biglietto, spendendo 15 milioni di Meriti. Lei accetta, e prima di salire sul palco gli regala un origami di un pinguino, fatto da lei. Abi si esibisce splendidamente, il pubblico virtuale è in visibilio.

Anche su questo si basa la società dello spettacolo, il fatto che dà a tutti l’illusione della possibilità di diventare famosi. I talent e i reality, sempre più pervasivi, non fanno che ricordarci che anche noi potremmo essere lì in quel momento, a patto che improntiamo la nostra esistenza sull’apparire costruendo e diffondendo un’immagine pubblica facilmente spendibile. In linea con queste riflessioni l’industria dell’intrattenimento rivolge le sue attenzioni al mondo dei giovani, notoriamente buoni consumatori perché facilmente influenzabili. D’altra parte, come si legge nel saggio di Isidori: “nei confronti dei giovani la società dello spettacolo si comporta in modo ambiguo e contraddittorio. Infatti, se da una parte propone il mito dell’adolescenza e della gioventù come punto di riferimento della cultura di massa (Danesi, 2006), dall’altra “insidia” ed “attacca” invece la cultura giovanile con una “guerra” che ha lo scopo di privarla di qualsiasi capacità di giudizio per trasformare i giovani in passivi fruitori e consumatori di beni e servizi prodotti dalle imprese commerciali per finalità legate al mero profitto economico ed al guadagno (Giroux, 2000)”.

Nonostante la splendida performance canora di Abi l’industria dell’intrattenimento, incarnata da tre giudici, sceglie per lei il futuro che meglio risponde alle esigenze del mercato, il porno: “o questo o la bicicletta”, “pensa agli spettatori, la maggior parte di loro farebbero tutto per essere al tuo posto in questo momento”.
Il povero Bing aveva ingenuamente pensato che la voce di Abi, così reale in un mondo contraffatto, avrebbe potuto liberarla dal mondo della normalità. Invece, la qualità più genuina di Abi, la voce, siccome non facilmente vendibile è stata sacrificata a vantaggio di scopi più lucrosi. Ora milioni di spettatori guardano le pubblicità dello show pornografico di Abi immaginandola felice e realizzata.

Quando una popolazione è distratta da cose superficiali (meccanismo non certo recente, si pensi al “pane et circenses”), quando la vita culturale è diventata un eterno circo di divertimenti, quando ogni serio discorso pubblico si trasforma in un balbettio infantile, quando un intero popolo si trasforma in spettatore e ogni pubblico affare in un varietà televisivo, allora la nazione è in pericolo: la morte della cultura è chiaramente una possibilità (Postman 2003).
Sembra che questa società dello spettacolo stia determinando una regressione della cultura ridefinendo il rapporto di categorie opposte. La forma diventa più importante della sostanza, la superficialità più interessante della serietà, l’individualismo non è più bilanciato dalla solidarietà, la gratificazione è immediata o non è. La ridefinizione dei valori è ora basata sulla loro popolarità, sul gradimento della loro rappresentazione e sulla loro capacità di essere mercificati.

Bing, dopo mesi di duro lavoro e preparazione, riesce ad accedere al talent show. Dopo la sua finta performance attua il suo sabotaggio: minacciando di uccidersi in diretta con una lama di vetro costringe i giudici ad ascoltare il suo discorso critico: 
«Io non ho preparato proprio nessun discorso, non ci ho neanche provato. Volevo solo riuscire ad arrivare fin qui per farmi ascoltare da voi. Per costringervi almeno una volta nella vostra vita ad ascoltare davvero qualcuno invece di starvene lì a far finta di farlo. Vi accomodate a quel tavolo, guardate verso questo palco e noi ci mettiamo subito a ballare, a cantare, come dei pagliacci. Per voi non siamo delle persone, voi non ci vedete come degli uomini quando siamo qui ma della merce.
E più siamo falsi e più vi piace perchè è la falsità l’unico valore ormai, l’unica cosa che riusciamo a digerire..Anzi no! Non l’unica, il dolore e la violenza: accettiamo anche quelli. Attacchiamo un ciccione ad un palo e iniziamo a deriderlo perché crediamo sia giusto. Noi siamo quelli ancora in sella e lui è quello che non ce l’ha fatta “ahah che scemo!”. Siamo talmente immersi nella nostra disperazione che non ci accorgiamo più di nulla. Passiamo la nostra vita a comprare cazzate. Tutto quello che facciamo, i nostri discorsi, sono pieni di cazzate. “Insomma sapete qual è il mio sogno? Il mio sogno più grande è comprare un cappello per il mio avatar”: una cosa che neanche esiste! Desideriamo stronzate che neanche esistono! E siamo stufi di farlo.
Dovreste darci voi qualcosa di reale ma non potete, giusto? Perché ci ucciderebbe. Siamo talmente apatici che potremmo impazzire, c’è un limite alla nostra capacità di meravigliarci. Ecco perchè fate a pezzi qualunque cosa bella che vedete, e solo a quel punto la gonfiate, la impacchettate e la fate passare attraverso una serie di stupidi filtri finchè di quella cosa non rimane che un mucchio di inutili luci mentre noi pedaliamo, giorno dopo l’altro, per andare dove?! Per alimentare cosa?! Delle celle minuscole con dei piccoli schermi. E sempre più celle e sempre più schermi e quindi fanculo!
Fanculo il vostro dannato spettacolo! Fanculo! Fanculo voi che ve ne state lì e non fate nulla per cambiare le cose! Fanculo le vostre telecamere e i vostri maledetti canali! E fanculo tutti per aver trattato la cosa più cara che avevo come se non valesse nulla, per averla afferrata e trasformata in un oggetto, in un giocattolo, l’ennesimo orribile giocattolo in mezzo a milioni di altri! Fanculo! Fanculo a tutto quanto! Fanculo per me, per noi, per tutto il mondo! Fanculo!»

Conclusione: cosa ci rimane?

Perché la società dovrebbe sentirsi responsabile soltanto dell’educazione dei bambini,
 e non dell’educazione degli adulti di ogni età?
(Erich Fromm)

In primo luogo ci rimane tanto da fare, e non certo una guerra al progresso. Le nuove tecnologie ci offrono (e ne offriranno sempre più in futuro) nuovi strumenti per raggiungere più persone, per comunicare e per educare: le frontiere dell’educazione si stanno spingendo verso un uso sempre più massiccio della rete e della realtà aumentata come supporto per nuove forme di apprendimento (si veda ad esempio Kirkley & Kirkley 2005). Dal rilascio di PokemonGo, l’estate scorsa, sono stati scritti diversi articoli (anche se è doveroso dire che di dati ce n’è pochi) in cui si sottolinea come questo tipo di tecnologie abbia un potenziale impatto positivo nella promozione dell’attività fisica, soprattutto in adolescenti e preadolescenti (si veda Piercy & Vaux-Bjerke 2016).
Possiamo estendere questo tipo di osservazioni sulla promozione dell’attività fisica a spettacoli televisivi come NW e MC? Forse, almeno parzialmente. E occorre fare un’altra osservazione.
A proposito di codici culturali, ecco l'anteprima che NW ha usato sui social..
Oggi il potere si esercita fondamentalmente a partire dalla produzione e diffusione dei codici culturali, degli atteggiamenti e dei valori contenuti nelle informazioni che vengono diffuse, più o meno tacitamente o subdolamente, dai media (McLaren, Macrine & Hill, 2010 in Isidori 2015). Il problema risiede proprio qui, nei codici culturali che vengono selezionati e rappresentati; abbiamo già cercato di chiarire da chi e per quale motivo: ricordiamoci che NW e MC rimangono, nella loro struttura di base, degli show il cui scopo è di spettacolarizzare una merce per poterla vendere meglio.
In questi anni, tuttavia, abbiamo potuto apprezzare anche fenomeni mediatici di altro tipo, questi decisamente positivi. Queste iniziative hanno scopi radicalmente diversi e, guarda caso, si esprimono attraverso forme radicalmente diverse. Una di queste iniziative è il progetto di Julie Angel “See&Do” (www.see-do.com): lo scopo di questo progetto, come si può leggere nel sito, è quello di normalizzare l’immagine della donna come attrice in diverse attività outdoor come Parkour e Bouldering. See&Do documenta coloro che già sono attivi/e nella speranza di creare opportunità perchè altri/e possano provare. Il mezzo scelto è il social media e l’intento è chiaro: contrastare stereotipi e passività, facendo leva sul senso critico e la voglia di mettersi in gioco.
Proprio la passività e la mancanza di criticità rimangono le maggiori sfide che l’educazione deve affrontare nell’era della società dello spettacolo e della rete. Per Debord l’instaurazione della verità nel mondo, non può essere attuata da individui che non sono collegati con la storia e la civiltà collettiva, e neppure da esseri dicotomizzati e manipolati. Queste persone, per modificare la loro realtà, devono essere in grado di dialogare e di utilizzare il linguaggio come strumento di costruzione sociale (Isidori 2015).
La stampa, che è stata il mezzo di comunicazione principe delle età dello sviluppo della civiltà moderna, dell’affermazione delle libertà civili, ha lasciato il posto alla televisione. Se l’alfabetizzazione era garanzia e condizione necessaria alla partecipazione ragionata al discorso pubblico, nell’epoca della tv questo si è ridotto ad una forma di divertimento, ad una sequenza rapida e sfuggente di immagini che appaiono e scompaiono sulla superficie di uno schermo lasciando subito il posto ad altre figure, ad altre luci, ad altri colori (Buonocuore, postfazione a Divertirsi da morire).
Nel corso della loro storia, gli sport moderni hanno sviluppato regole sempre più dettagliate per definire i limiti di partecipazione e accesso alla pratica sportiva. Queste regole riflettono il disegno organizzativo dello sport moderno, fondato a beneficio dello stato-nazione che lo finanzia e promuove fino alle Olimpiadi (http://ilmanifesto.info/lucrative-contraddizioni-dello-sport-moderno/). Ora stiamo forse assistendo alla nascita degli sport post-moderni? Non è certo più lo stato-nazione che influenza questi processi, ad essi si è sostituito il mercato globale. Non sono più esigenze politiche quelle sui cui si plasmano gli sport, oggi sono esigenze economiche; non si tratta più di regole dettagliate e competizioni tra nazionali ma di rendere tutto spendibile. Ecco come la spettacolarizzazione, in funzione del profitto, quando non crea dal nulla (pensiamo allo slamball, per esempio), manipola movimenti, discipline e culture per i suoi propri fini.
Cosa ci rimane? Ci rimane il diritto al dissenso, e la presa di coscienza che per fare da contrappeso a una diffusione massificata e superficiale serve un esercito di praticanti, educatori, insegnanti, cittadini critici e liberi pensatori che lavorino sulla qualità e per approfondire. Ognuno attraverso la propria disciplina e specializzazione sarà chiamato a contrastare la passività, la superficialità e la paura di non diventare mai dei campioni, di parkour come di qualsiasi altra cosa. Sarà dura ma dovremo far capire a tutti che, alla fine, non è quello che importa.

Nota finale: il pericolo in agguato

Stavo per dimenticarmi la fine della puntata di Black Mirror.

Dopo il drammatico discorso di Bing, i giudici, inaspettatamente, lo applaudono e gli offrono la possibilità di entrare a far parte dello show con una rubrica personale. Bing, dopo un’attesa carica di tensione, accetta: ottiene così il potere di gridare le sue critiche agli spettatori che lo guardano dalle cyclette. Si conclude così il processo della spettacolarizzazione: fagocitando, spettacolarizzando ed in fine sterilizzando le critiche stesse.

Nessuno, o quasi, è più in grado di disconnettersi dalla società dello spettacolo. A tutti noi rimane solo la possibilità di scegliere un compromesso, nella speranza di ottenere più di quello che si perde.


Gato, ParkourWave


Principali fonti citate

  • Isidori 2015, La comunicazione spettacolarizzata: una riflessione pedagogica tra Debord e YouTube
  • Debord 1967, La società dello spettacolo
  • Postman 2003, Divertirsi da morire
  • Huxley 1932, Il mondo nuovo
  • Orwell 1949, 1984
  • Kirkley & Kirkley 2005, Creating next generation blended learning environments using mixed reality, Video Games and Simulations
  • Piercy & Vaux-Bjerke 2016, Pokémon Go: A Game Changer for Kids’ Physical Activity?
  • Il Manifesto, www.ilmanifesto.info
  • Angel, www.see&do.com


lunedì 9 maggio 2016

Appunti per un sistema di trasmissione del Parkour, Parte 2/3

2. Il problema del Come

"Se ascolto dimentico, se vedo ricordo, se faccio capisco". Confucio

Appunti preliminari (un po’ caotici) sull’Apprendimento
Secondo la classica definizione degli psicologi americani E. Hilgard e G. Bower (1966), l’apprendimento è il processo mediante il quale “si origina o si modifica un’attività reagendo a una situazione incontrata”, senza che tale attività sia originata da “risposte innate” o da “stati temporanei dell’organismo”. In altri termini, apprendere significa creare o modificare un comportamento in modo stabile e durevole (quindi non temporaneo), partendo da stimoli acquisiti dall’esterno (quindi non innati). L'apprendimento è un cambiamento interno (si veda anche Bateson che approfondisce: il cambiamento è un processo che può a sua volta cambiare.. si originano così i 4 livelli di apprendimento). Di che cosa?
Per rispondere occorre una teoria. Quale scegliere? Dalla teoria delle competenze otteniamo tre categorie: sapere, saper fare e saper essere. Nel quadro europeo delle qualifiche per l’apprendimento permanente (EQF), vengono usate queste tre categorie analoghe.
  1. Conoscenze”: indicano il risultato dell’assimilazione di informazioni attraverso l’apprendimento. Le conoscenze sono l’insieme di fatti, principi, teorie e pratiche, relative a un settore di studio o di lavoro; le conoscenze sono descritte come teoriche e/o pratiche.
  2. Abilità”: indicano le capacità di applicare conoscenze e di usare know-how per portare a termine compiti e risolvere problemi; le abilità sono descritte come cognitive (uso del pensiero logico, intuitivo e creativo) e pratiche (che implicano l’abilità manuale e l’uso di metodi, materiali, strumenti).
  3. Competenze”: indicano la comprovata capacità di usare conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche, in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e/o personale; le competenze sono descritte in termini di responsabilità e autonomia.
Il cambiamento può quindi avvenire a diverse “profondità” e più è superficiale, più è facile che avvenga. È più facile modificare le conoscenze, basta trasmetterne di nuove. Tuttavia ci sono diversi aspetti negativi del concentrarsi troppo sulle conoscenze: innanzitutto sono meno spendibili nella vita, meno utili. Inoltre c’è il rischio di una collusione inconscia tra docente e discente sulla apparente certezza rassicurante delle conoscenze e sul carattere coesivo per il gruppo delle stesse. Infine questa trasmissione tende a mantenere la dipendenza di chi non sa da chi sa e anche ad irrigidire gli schemi appresi, interiorizzati come corretti ed immutabili. Elliot Jaques, padre di questa teoria, si spinge oltre descrivendo la creatività come la capacità di lavorare e risolvere problemi. Gli psicologi attribuiscono alla creatività “il pensiero divergente” e alla trasmissione di conoscenze “il pensiero convergente”. Mentre quest’ultimo privilegia la certezza, il primo privilegia il rischio.
Per un apprendimento non superficiale (non nozionistico), occorre che il meme abbia un significato sia cognitivo che emozionale, perché solo con l'emozione si ottiene l’interiorizzazione. Lo stesso Jaques, a tal proposito, spiega come le emozioni negative giochino un ruolo chiave nell'apprendimento, perchè sono forti ed educano all’incertezza (qualche analogia con il concetto di Zona di Comfort?). Per lavorare sulle abilità e sulle competenze bisogna quindi suscitare anche delle emozioni. Come si fa?
L'emozione è suscitata dall'esperienza diretta di una relazione interpersonale o con l'ambiente fisico (Dewey, Jaques). Senza esperienza non c'è emozione ed è possibile solo un apprendimento cognitivo (con il rischio di confondere il concetto con la realtà, Jaques). Con le sole conoscenze si posseggono rappresentazioni mentali più o meno adeguate ma non si possiede il loro valore/significato. Per Lindeman "la formazione degli adulti è un processo attraverso il quale i discenti prendono coscienza del significato delle loro esperienze. Questo riconoscimento di senso porta alla capacità di valutazione. Un'esperienza acquisita significa sapere che cosa è accaduto e quale rilevanza quel particolare evento presenta per la nostra personalità”.
E’ importante notare che gli adulti possiedono già un bagaglio di vissuti, di conoscenze empiriche, che sono il materiale su cui ognuno esercita la riflessione (considerazione attiva, persistente e attenta di qualunque forma di conoscenza, alla luce dei fondamenti che la supportano e dell'ulteriore conclusione a cui tende. Dewey 1933). Le esperienze non compiute possono essere sperimentate ex novo attraverso simulazioni o esercizi. Ed è decisivo che all'esperienza segua la riflessione (anche guidata).
L'apprendimento dall'esperienza accompagnato, ad esempio, all'uso del ciclo di Kolb (con feedback e riflessioni personali), alle esperienze simulate e al lavoro collaborativo di gruppo, tende a rendere autonomi i discenti. Non solo, abitua al lavoro creativo (che è massicciamente connesso alla gestione dell’incertezza, vedi Jaques) e suggerisce l'importanza del LifeLong Learning. Organizzare e guidare queste esperienze è ciò che chiamiamo coaching.

Il Coaching
Il coach è un facilitatore dell’apprendimento (Downey 1999). Abbiamo accettato che l’apprendimento è un cambiamento. Ne consegue che il coach dovrebbe essere un facilitatore del cambiamento.
Agevolare un cambiamento, si, ma in quale direzione? La direzione è la cosa più delicata. Credo che essa debba essere attentamente scelta, in uno spettro di possibilità (che un buon coach imposta per deontologia professionale), concertandola con bisogni/aspettative del coachee (il quale il più delle volte non deve nemmeno essere consapevole di questo processo). Questa è la grossa responsabilità del coach: decidere in quale direzione applicare quella leggera spinta che agevola un cambiamento.
Applicare grande sensibilità e cautela: bisogna cercare di districarsi tra i possibili obiettivi a breve, medio e lungo termine di ogni singolo coachee e alla fine, a mio avviso, rivolgersi soprattutto agli obiettivi a lungo termine.
Una delle possibilità per toglierci, almeno parzialmente, da questo impiccio è di educare a capire la struttura del problema, piuttosto che fornire tecniche per risolverlo (si veda il problema del barometro di Rutherford). Troppo spesso, infatti, l’insegnamento viene portato avanti in una direzione prestabilita dall’istruttore e attraverso delle conoscenze statiche. In questo modo, alla fine del processo, lo studente avrà in mano un pugno di sabbia ma sarà convinto di essersi dotato di strumenti per far fronte a situazioni reali.
Il pugno di sabbia è, ad esempio, ciò che penso della maggior parte dei corsi di difesa personale cui ho assistito o partecipato. Si cerca senza successo di trasmettere tecniche perchè quelle tecniche hanno il valore di tranquillizzare ed illudere chi le impara; sarebbe molto più frustrante intraprendere il percorso complesso che porta all’emergenza di abilità che permettono davvero di far fronte ad un’aggressione. Il problema è la totale impreparazione al movimento che è la base per agire con creatività, prontezza ed adattabilità: siamo tornati alla differenza tra conoscenza e abilità.
Alcune scappatoie sono: esercitare skills generiche (via via più specifiche), attaccare la struttura del problema piuttosto che una situazione specifica, usare più i principi che le tecniche (si veda ad esempio la ricerca di Rootlessroot con il progetto FightingMonkey). La danza improvvisata e la Capoeira ci forniscono, invece, degli esempi positivi: fin da subito lavorano sulla struttura più che sulla tecnica e applicano incessantemente in situazioni meno simulate.

Stili di coaching
Come aggirare questo problema? Cercando di integrare diversi stili di coaching, spingendo verso una pratica più autodiretta. Recentemente Marcello Palozzo ha trattato questo tema per il team ci coaches di ParkourWave, ne riporto qui sotto una sintesi. Più in alto si trovano stili più eterodiretti, più improntati all’imitazione, via via che si scende ci si sposta verso stili più autodiretti ed improntati sulla produzione.
  • Comando: vengono fornite dettagliate indicazioni su come eseguire un compito, il coach supervisione tutte le fasi
  • Pratica: il coach assegna ad un piccolo gruppo uno o più compiti che vengono svolti in autonomia
  • Reciproco: lavoro con un partner, ci si corregge reciprocamente
  • Autoverifica: il coach stabilisce dei criteri che i coachee possono usare per autovalutarsi
  • Inclusione: esercizio pensato per permettere a ciascun coachee di lavorare con il gruppo al grado di difficoltà che sente come appropriato
  • Scoperta guidata: metodo inquisitorio, il gruppo viene portato a scoprire un concetto mediante domande poste dal coach
  • Scoperta convergente e divergente: sempre attraverso delle domande si auspica un’unica soluzione ad un problema o una ampia gamma di possibilità
  • Autoinsegnamento: i coachee scelgono tutti i criteri di gestione dell’allenamento
  • Esplorazione libera: esplorazione diretta dell’ambiente senza vincoli
Credo sia opportuno ragionare su come questi stili siano strumenti diversi, non c’è uno stile giusto ed uno sbagliato, piuttosto ci sono scenari che rispondono più o meno efficacemente ad uno specifico stile.

Ricapitolando
Almeno in questo momento storico, da un coach di Parkour ci si aspetta anche (che sia giusto o no, non è pertinente a questa discussione) che sia un allenatore: che aiuti cioè gli allenati a mantenersi in forma e a migliorare le loro qualità condizionali. Ma per quanto riguarda questo argomento possiamo tranquillamente rifarci all’ampia (anche se non certo completa) letteratura di Scienze Motorie.
Per quanto riguarda il coaching, invece.. Il coaching nel Parkour consiste nello scegliere quali stimoli fornire, a quale praticante, in quale modo, in quale momento. Semplice no?

venerdì 19 febbraio 2016

Appunti per un sistema di trasmissione del Parkour, Parte 1/3

Nota iniziale: periodaccio per la comunità di ADD/Parkour/Freerun, eh? Il clima sembra un po' avvelenato. Ma proviamo a riportare la discussione sulla pratica e sull'insegnamento, piuttosto che lasciarla vagare sulla filosofia politica. Si, lo so.. pubblicare qualcosa di questo tipo equivale a immergere le chiappe in una vasca di piranha, ma questi appunti stanno nel mio drive da alcuni anni, è il caso di sbarazzarsene.. :)

Appunti per un sistema di trasmissione del Parkour Parte 1/3

Un Maestro di Aikido mi ha detto, una volta, che è molto difficile ricordarsi tutte le tecniche stipate nei kata. Risulta quindi quasi impossibile rispondere ad un attacco con la tecnica che sarebbe formalmente più corretta. Dall’imbarazzo ci si salva con i principi.
Conoscere bene i principi base dell’Aikido permette di applicare una tecnica appropriata, scelta attraverso un “ragionamento” piuttosto che dettata da un rapporto univoco memorizzato in precedenza. Nella pratica del parkour questo problema non si pone: le tecniche tra cui scegliere sono poche.
Le cose cambiano se ci spostiamo nell’ambito del suo insegnamento. Un coach è chiamato a rispondere alle esigenze (in realtà ad anticiparle) dei discenti con esercizi specifici. Allora si che sarà difficile avere un esercizio codificato per sottolineare l’importanza di ogni dettaglio della disciplina. Un elenco potrebbe essere fatto, si. E credo che ogni coach abbia, nella sua agenda, un elenco di esercizi frutto degli anni di esperienza da studente e da insegnante. Ma ben più arduo sarebbe fare un elenco di tutti i dettagli che contano. Effettivamente ci ho provato numerose volte, e il risultato non mi ha mai soddisfatto pienamente.
Dunque, forse, è più utile iniziare un processo di sintesi piuttosto che procedere con un lavoro compilativo che, per la natura stessa del parkour, rimarrebbe eternamente incompleto.
La domanda cui cerco risposta è questa: come si agevola lo sviluppo di quell’amalgama di sensazioni, abilità, competenze e adattamenti che rendono una persona un praticante di parkour, nel senso più completo del termine?
A questo punto, per semplicità, dividerò due categorie: il Come dal Cosa. Del Come fa parte tutta la questione del metodo di insegmaneto; il Cosa riguarda più il “programma”, le materie trattate. Lungi da me l’idea che una separazione netta possa essere operata tra queste due categorie, ma per affrontare problemi complessi bisogna provare a scomporli in problemi più semplici.

1. Il problema del Cosa

Se un insegnante non può insegnare tutte le materie, perché gli studenti devono studiarle tutte? (Anonimo)

La mia mente funziona per immagini e così, negli anni, ho sempre preferito disegnare dei grafici, prima di scrivere. Penso che l’immagine renda in maniera molto più immediata lo sviluppo delle relazioni tra i concetti.
Uso la ormai arcinota metafora dell’iceberg: fuori dall’acqua si vede solo una piccola parte, il resto è nascosto sotto. Nel Parkour la parte scoperta è quella percepibile in qualsiasi video sulla rete. Il fatto che sia visibile e nota non deve portarci a pensare che sia poco importante, tuttavia non dobbiamo nemmeno pensare che sia tutto lì.

La parte visibile
Della parte “visibile” fanno parte i Trucchi, le Tecniche e gli Attributi.
Quelli che ho chiamato Trucchi altro non sono che dettagli utili che l’esperienza fa emergere o il passaparola diffonde (ad esempio l’uso della gamba nel climbup, i piccoli movimenti dei piedi nel salto di precisione, l’inclinazione del bacino nel volo dopo uno swing).
Le Tecniche sono l’insieme più o meno codificato dei movimenti propri di noi esseri umani. Possono essere organizzate gerarchicamente in insiemi via via più specifici; c’è chi sostiene che non si possa davvero isolare una tecnica da un’altra; c’è chi è legato ad una forma di nomenclatura piuttosto che ad un altra. Il “problema” della sistematica delle tecniche del Parkour mi pare ricalcare il problema della sistematica degli esseri viventi. E da lì mi giunge un aiuto: la sistematica è un costrutto, rende conto di differenze naturali che occorrono nella maggior parte dei casi ma non è un ente reale, solo utile. Stesso vale per il Parkour: dividere, organizzare e dare nomi va bene perchè è utile a noi, basta che non ci dimentichiamo che la mappa non è, per quanto precisa, reale; solo il territorio lo è. In futuro assisteremo sicuramente ad una trattazione via via più specifica della biomeccanica specifica dei movimenti del parkour, è inevitabile (e anche positivo). Questo approccio biomeccanico chiarirà ulteriormente la corretta esecuzione di una tecnica e ne svelerà i trucchi.  
Per quanto riguarda gli Attributi.. qui, per riprendere la metafora dell’iceberg, comincia a salire l’acqua. Spesso sono parzialmente sommersi semplicemente perchè è più ostico notarli. Gli attributi descrivono e connotano un movimento o un praticante. Alcuni esempi sono la rapidità, il silenzio, la potenza, la prontezza, la consistenza, la coordinazione, l’eleganza. Tra questi annovero anche resistenza e resilienza. L’elenco è volutamente parziale, ogni praticante potrà compilare l’elenco che risponde meglio alle sue necessità o osservazioni.
Allenare, sviluppare, insegnare queste “aree emerse” non è facile, ma tanto è stato già scritto nelle scienze motorie (e tanto ancora sarà scritto in futuro da specialisti che arriveranno). Mi preme solo di sottolineare la maggiore importanza degli attributi sulle tecniche e di queste ultime sui trucchi. Rapido ma transitorio è l’apprendimento di chi inverte questa gerarchia, andando a scovare subito i trucchi per portare a termine un problema. Credo l’abbia detto Yoda.

La parte non visibile
La parte non visibile giace sotto la piramide emersa. Qui si annidano gli elementi che rendono giustamente il parkour una disciplina a sè, non ascrivibile ad una bastardizzazione della ginnastica artistica. Il tentativo di sintesi è avvenuto soprattutto a questo livello: quali caratteristiche sono irrinunciabili, pena la perdita di una parte caratterizzante il parkour? E quali concetti, invece, sono riconducibili a principi più generali e quindi non necessitano di tanta attenzione? Ovviamente la scelta è ardua, soggettiva e temporanea. E lo dico sul serio! Andando a riguardare gli appunti presi negli anni noto tanti concetti ricorrenti, ma quanto alla loro organizzazione... solo confusiuone.
Il mio punto di partenza sono stati “i tre pilastri” del parkour, così come sono stati identificati da alcuni esperti praticanti intorno al 2010. La Forza, il Tocco e lo Spirito sono tre vasti insiemi che dovrebbero racchiudere tutti i concetti cari alla disciplina.
Sarà dovuto all’eleganza del ragionamento o alla forza inconscia del simbolo, ma la concettualizzazione in 3 insiemi intersecanti ricorre. Nelle scienze motorie i tre insiemi delle qualità di un atleta: qualità condizionali, coordinative e psicologiche. Nel Judo shin (lo spirito), gi (la tecnica) e tai (il corpo). E la lista delle ricorrenze potrebbe continuare, interessante.. Ma torniamo a noi.
La Forza comprende due concetti importanti: la Forza Fisica (intesa come insieme delle qualità condizionali) necessaria per sostenere la performance e la Forza Mentale necessaria per affrontare ogni allenamento (solo?) diligentemente.
Il Tocco indica la sensibilità al movimento (intesa come insieme delle qualità coordinative), entrano in questo insieme concetti fondamentali come il Flow (uso efficace dei gruppi muscolari, economia del movimento) e l’Armonia (precezione intuitiva di quando un movimento o un gruppo di movimenti sono “giusti” o “sbagliati” rispetto ad altri movimenti o all’ambiente).
Nello Spirito si collocano le qualità psicologiche che la pratica del parkour dovrebbe aiutare a costruire come il Focus, la Determinazione e l’Umiltà.
La mia sintesi ha arbitrariamente postulato un' assioma nell’intersezione centrale dei tre cerchi e ha poi identificato 3 principi cardine nelle tre intersezioni periferiche. Questi quattro concetti dovrebbero servire da anello di congiunzione tra il cosa ed il come, ma anche tra i 3 cerchi ed il triangolo. Sono i princìpi che dovrebbero ricapitolare tutte le cose importanti da fare.

L’assioma dell’Aretè
Assioma perchè è il punto di partenza non negoziabile, va accettato o rifiutato, non si può dimostrarne la bontà. Cos’è l’Aretè lo lascio dire ad un tale di nome Kitto, mi pare fosse uno professore di letteratura greca classica. La citazione viene dallo splendido libro “Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta” di Pirsig.

“What moves the Greek warrior to deeds of heroism,” Kitto comments, “is not a sense of duty as we understand it... duty towards others: it is rather duty towards himself. He strives after that which we translate “virtue” but is in Greek areté, “excellence” - we shall have much to say about areté. It runs through Greek life.” [...]
Kitto had more to say about this areté of the ancient Greeks. “When we meet areté in Plato,” he said, “we translate it “virtue” and consequently miss all the flavour of it. “Virtue”, at least in modern English, is almost entirely a moral word; areté, on the other hand, is used indifferently in all the categories, and simply means excellence.
Thus the hero of the Odyssey is a great fighter, a wily schemer, a ready speaker, a man of stout heart and broad wisdom who knows that he must endure without too much complaining what the gods send; and he can both build and sail a boat, drive a furrow as straight as anyone, beat a young braggart at throwing the discus, challenge the Pheacian youth at boxing, wrestling or running; flay, skin, cut up and cook an ox, and be moved to tears by a song. He is in fact an excellent all-rounder; he has surpassing areté.
Areté implies a respect for the wholeness or oneness of life, and a consequent dislike of specialization. It implies a contempt for efficiency... or rather a much higher idea of efficiency, an efficiency which exists not in one department of life but in life itself.”

Il principio della Sfida
In principio c’era un gioco, e il gioco era una sfida.
Questo principio suggerisce al praticante l’utilizzo della sfida, appunto, come strumento per la crescita. Attraverso la sfida si riflette sui propri limiti, sulla sincerità, sull’autodisciplina, sulla generosità, sulla cooperazione. Attraverso la Sfida si può forgiare la propria Armatura Corporea. Il praticante si tempra con la Sfida, che è più un Come che un Cosa.

Il principio dell’Esplorazione
Esplorare significa ascoltare la propria curiosità, attraversare l’ambiente e scoprirlo, esporsi all’incertezza, avere la forza di fare ciò che vogliamo, ignorando le costrizioni sociali. Dall’esplorazione sboccia la creatività vera, che non è imitazione ma libertà di pensiero fuori dai vincoli: si può esplorare il fuori e anche il dentro, si possono sperimentare tutti i modi di muovere il proprio corpo. Anche la Visione Laterale si sviluppa con l’esplorazione in tutte le sue forme. L’esplorazione stimola a continuare la ricerca.

Il principio dell’Adattabilità
L’adattabilità è un grande contenitore, elastico. Dentro si trova il concetto della Parkour Defence (le tecniche di recupero da un errore), ma anche la constatazione che le tecniche vanno adattate al contesto, rese morbide: la natura è maestra qui.
Ma c’è anche un altro tipo di adattabilità, che è quella alle circostanze esterne più generali, ai vincoli. Essere in grado di rinunciare ai comfort (necessità?), essere efficaci anche sotto la pioggia o con le “scarpe sbagliate”, poter fare a meno delle cose che ci legano.


Tenendo bene a mente l’assioma e i princìpi, imparando ad allenare le qualità condizionali e osservando attentamente gli attributi, credo che abbiamo radunato tutti gli ingredianti necessari. Ma come servirli?