martedì 23 dicembre 2014

Prima di Gaza

Non era ancora iniziata la seconda Intifada quando sono stato in Israele per la prima volta, ero un teenager all'apice del suo impegno agonistico. Coscienza politica molto scarsa, soprattutto su temi internazionali. Di quel soggiorno ho numerose immagini mentali. Il bazaar di Gerusalemme ovest: tessuti blu a schermare un sole rovente e sotto venditori di fiori di zafferano e curry, mangiare hummus. Passare per Jaffa Gate e pensare a Città Alta, camminavamo per il quartiere ebraico ed era pieno di bambini ortodossi con i bargigli che penzolavano mentre si dimenavano dietro ad una palla.
Abbiamo intravisto la dorata moschea di Al Aqsa, da un balcone che portava al Muro del Pianto. Orde di fedeli scendevano l'angusta scala per il Santo Sepolcro, commossi. La palestra del Talpaz Judo Team in cui ci allenavamo tutti i giorni, buia e fresca, permeata dall'odore dei tatami, ricordo che è stata la prima volta che ho fatto zazen. Ho ancora delle facce, ma più nessun'nome: il campione, categoria 65kg, appena tornato dai duri anni di servizio militare (e tutti dicevano, comprensivi: "ora vuole solo divertirsi"). Il Maestro ricciolo e tozzo con i piccoli occhiali rotondi, chissà come era diventato amico del mio Maestro? E il ragazzino ebreo che ci invitò a cena, era cintura blu: mio padre mi aveva dato delle bottiglie di vino italiano da regalare ai miei ospiti, piacquero molto. Quella sera mi hanno dato un kippah e ho osservato una cerimonia religiosa con del sale. Quando mi chiesero se ero cattolico risposi di no, che ero ateo; penso non abbiano capito.
Per molti giorni mi sono confrontato con loro in un modo speciale, profondo e che travalica le culture: lo Shiai. Lo Shiai è lo scontro di judo, 100% della forza, obiettivo vittoria.
Quello che ho pensato degli israeliani che ho conosciuto è che sono soprattutto ostinati. Non con la finezza tecnica o con la rapidità cercavano di sottomettermi, ma con una dura ostinazione, i muscoli sempre tesi. Sono stati degli ospiti splendidi: gentili e ospitali.
Ora mi si presenta una nuova opportunità: tornare e osservare tutto dall'altra parte. Allora parlavo Judo, con i palestinesi parlerò Parkour. Avrò nuovamente uno strumento di confronto capace di travalicare le culture, che in poco tempo può darmi un' idea di come sono le persone. Forse...

Sono carico di ansia, la situazione in questo momento non è delle migliori, Gaza è stata praticamente rasa al suolo dagli ultimi bombardamenti di quest'estate, i visti vengono concessi raramente e hanno appena sparato ad un attivista italiano. Temo anche (soprattutto, per la verità), di trovare una comunità di parkouristi superficiali nella loro pratica. Temo di non sapere come parlare con loro, correndo il rischio di entrare in una logica coloniale se forzo la mano sul concetto più profondo di parkour. Temo di perdere di vista la condizione umana e politica generale focalizzandomi solo su un dettaglio come può essere percepito il parkour quando la gente vive in stato di guerra. Mi sembra di avere sempre bisogno di un mediatore culturale che mi consigli.. non so quanto devo/posso essere il me stesso "rigido traceur", forse ridicolo in un contesto di quel tipo. Il confronto tra due persone deve avvenire in sincerità totale o attraverso ragionate mediazioni? Chi è a casa sua ha il privilegio di essere il principale attore dello scambio culturale? Chi è ospite dovrebbe essere "tazza vuota", pronto ad assorbire? Facile quando si parla di cultura occidentale dominante, mi è sempre sembrato facile metterla da parte quando viaggio nelle giungle. Ma se viene il turno della mia personale cultura parkouristica? quella che ho così orgogliosamente difeso per anni? Sono capace di metterla da parte? O sono comunque convinto di essere nel giusto? Se ai bimbiminchia si sotituiscono degli uomini palestinesi temprati dalle avversità? Forse non sono mai stato capace di mettere da parte la mia cultura occidentale davvero, se non sono capace di mettere da parte l'approccio colonialista, arrogante, di chi è convinto di avere ragione. Cazzo ma qui in Italia io sono convinto di avere ragione, perchè dovrebbe cambiare il ragionamento se cambia il contesto? E se poi il contesto mi cambia il ragionamento, che ne sarà della mia visione del parkour quando ritorno?

A complicare le cose due questioni. Uno, l'esperienza di qualche anno fa con i ragazzi di Gaza Parkour in Italia, così ben narrata dal corto documentario di Zambe et al. In quel caso mi sono fatto forte dell'essere a casa e ho cercato di passare la mia idea di parkour. Con questo abbiamo creato un precedente e forse prodotto dei risultati che, a distanza di 3 anni, potrò valutare in loco. Ma potrei anche accorgermi che il messaggio in realtà è scivolato sopra le nostre teste, confermando amaramente quanto illusoria sia la comprensione tra culture diverse.
Due. Questa carovana, organizzata dal centro VIK, mi porta in Gaza con il gravosissimo titolo di "formatore". Già dal significato della parola si capisce quanto questo dettaglio rischi di stravolgere tutto il precedente discorso delirante, facendomi irrimediabilmente scivolare verso la sicura rocca di ghiaccio della mia occidentalià scientifica.
In realtà c'è un' altra questione, ancora più grande e per questo così orrendamente difficile da vedere, comprendere e, soprattutto, trattare. Quanto questa delegazione ed il suo significato verranno stravolti e strumentalizzati dai grandi attori politici? Quali vincoli e/o pressioni riceveremo dall'esercito israeliano e da Hamas? Saremo sottoposti alle leggi della nostra coscienza o a quelle coraniche? Logica vuole che paese che vai, leggi che trovi. Facile accettare questo semplice teorema fintanto che si viaggia in europa, o anche in paesi tranquilli come l'indonesia, per esempio. Quando invece ci si insinua tra due enormi superfici in attrito, tutto diviene meno scontato e più angosciante. Le donne di Gaza non praticano parkour (non possono nemmeno abortire, tra l'altro). Come mi pongo io di fronte a questi temi? Come tazza vuota o come formica orgogliosa?

giovedì 6 novembre 2014

Personali Memorie di Strade





Ascolto Fritz da Cat 950 in streaming dal mio nexus 5: riaffiorano immagini e luoghi, era tutto molto diverso. Ricordo di aver preso la cassetta in omaggio con AL: era la fine del 1900, avrò avuto si e no 15 anni. Ci vestivamo largo e male, non avevamo ancora il telefonino, youtube non esisteva, le idee giravano a 56k, su carta o nelle parole dei vecchi seduti attorno al fuoco. Lo scenario era molto diverso da ora: in piazza si vivevano i pomeriggi, chiacchierando, disegnando, ballando; non c'era altro modo di essere social. Ascoltavamo gente guasta e ballavamo sugarhill gang.
Ma facciamo un passo indietro.
Fin da molto piccolo ho sempre scorrazzato per il mio quartiere (uno splendido e tranquillo centro storico) arrampicandomi in giro, giocando a pallone (poco, ero scarso) e a elastico "con le femmine". Come tutti, allora, si stava fuori.
Ma quello che mi ha cresciuto è iniziato alcuni anni più tardi.


Ero ancora alle medie, sarà stato il '96, quando cominciai a prendere la funicolare e poi il bus per andare al Piazzale degli Alpini. Allora un gruppo di ragazzi sui vent'anni si trovava là a bere birrette, fumare e skateare. Al tempo gli skaters (almeno quelli di Bergamo) erano fortemente influenzati dalla cultura punk e per me erano super fighi. Ma immaginate un bimbo di 13 anni (ne dimostravo si e no 11) in mezzo a questi.. Beh, col senno di poi credo che il loro background punk, così incline alle stranezze, abbia permesso che mi tollerassero con curiosa noncuranza. Appoggiavo l'eastpack sulla stessa scalinata su cui lo appoggiavano gli altri, li guardavo e ne imitavo i movimenti, ogni tanto ricevevo qualche consiglio; quando mi sentivo particolarmente coraggioso facevo delle domande. Nei mesi guadagnai il saluto di alcuni di loro, altri mi hanno sempre ignorato. È stata una scuola, imparavo come mostrare rispetto e come ottenerlo a mia volta da chi, per la prima volta nella mia vita di principino, non era affatto tenuto a ricambiare. Tutto ciò che ho ricevuto me lo sono guadagnato sul campo.
Ero diventato uno skater e cominciavo a passare parte del mio tempo in strada: vedevo barboni ubriachi, ragazzi disperati si facevano le pere nelle cosce, i poliziotti ci cacciavano e le anziane signore cambiavano strada. Intendiamoci, la situazione bergamasca non era granché hardcore rispetto ad altre scene di quegli stessi anni, ma certo era ben diversa dal cortile dell'oratorio.
Qualche anno dopo feci una delle esperienze che più mi hanno cambiato nella vita.

Quell'anno ero in vacanza a La Spezia e avevo fatto un amico che scriveva sui muri. Passava buona parte delle sue giornate nel cortile vuoto di una scuola insieme alla sua cricca, era agosto e la scuola media Fontana era chiusa. Passarono almeno due settimane prima che si decidesse a portarmi con lui. Doveva essere sicuro che non gli facessi fare figuracce, doveva prima istruirmi sulle basi. E io non aspettavo altro che di imparare tutto ciò che potevo. Così fui introdotto alla Cultura dell'Hip-hop.
La prima cosa che mi spiegò erano le 4 colonne: il writing, l'mcing, il breaking e lo scratching. Mi diceva che bisogna saperne di tutte e quattro per diventare un bboy. Mi spiegò che portavano i pantaloni larghi per ricordare i fratelli del Bronx, costretti a vestire i pantaloni dei fratelli maggiori; mi spiegò che non doevo far vedere le mutande, però, che era segno di scarso rispetto. Mi fece provare a girare i suoi dischi, mi fece mettere in rima delle parole, mi insegnò toprock e sixstep, mi disse di prendere carta e penna e disegnare il mio nome. Dopo giorni di pratica si ritenne soddisfatto e mi portò alla scuola.
Verso le tre entrammo nel giardino della scuola (ma com'è che nessuno li cacciava?), sul cancello d'ingresso la targa d'ottone, un tagger rosa colante riportava: Fontana Family. C'erano una quindicina di ragazzi e ragazze, dai 13 anni ai 30, alcuni seduti per terra, altri in piedi, parlavano, qualcuno disegnava. Al nostro arrivo poco scalpore, qualche ciao, qualcuno stringe il peace al mio Virgilio, nessuno lo stringe a me. Dopo qualche minuto di imbarazzo mi siedo e tiro fuori il blocco, disegno. Ad un certo punto uno dei vecchi prende parola e annuncia a tutti il programma del pomeriggio, in un angolo piastrellato i breakers avrebbero cominciato ad allenarsi, sulla gradinata c'erano fogli e penne per chi voleva disegnare, alla panca stavano per cominciare a fare del freestyle. Erano tutti invitati a fare ciò che preferivano e chi non faceva un cazzo era guardato male: poser.
Quel giorno lo ricordo bene, anche se ho la memoria di un pesce rosso. Rappai: stavo nel cerchio ad aspettare il mio turno col cuore in gola, ripassando le 3 rime che mi ero preparato, incerto. Poi ballai: mostrai il mio toprock rigido come un bastone, un sixstep meccanico. Divorai tutti i freez che mi mostravano, qualcuno si stupì. Ricevetti i complimenti di un po' dei vecchi. Quando ce ne andammo mi strinsero il peace, ero diventato un bboy.
L'esperienza che feci quell'agosto la riportai a casa con me e la coltivai. A Bergamo non trovai una comunità aperta e amichevole come la Fontana Family e mi dovetti adattare, fu utile anche quello.
Passai molti anni a ballare sotto i portici "dei tappeti" prima, di Dante Square poi. Conobbi un sacco di gente, mi trovai dentro agli scazzi, presi sberle, qualche volta scappai dalla polizia. Incrociai i vecchi di Bergamo: era il tempo dell'obelisco, dei gradoni, dei bordi delle aiuole, di piazza Dante e dei propilei. Il rispetto ha sempre contato più del talento. Furono grandi anni, guardavamo L'odio e I guerrieri della notte, stavamo fuori notti intere e ci divertivamo un sacco: le cose grosse più le piccole per crescere. L'Hip Hop ci spinse a riflettere anche sul rapporto tra giusto e lecito. Fu questa la nascita, per molti di noi, della coscienza politica: la coscienza parla di una coscienza come arma. Ma questa è un'altra storia..

Anni dopo arrivò il Parkour, flash forward di quasi 10 anni: eccoci ad oggi.
La comunità del Parkour è stata la più inclusiva e aperta che io abbia mai incontrato. Ad ogni nuova leva vengono spiegate le basi e corretti gli errori più grossolani. Durante il primo condizionamento si viene solitamente aspettati e motivati. Altro che ostilità o noncuranza. Credo che questa cultura della trasmissione ci sia arrivata direttamente dai primi praticanti: così Laurent ci ha raccolti a caso sotto la Dama del Lago quell'autunno, così Stephane e Thomas ci hanno trattati in quei lontani primi workshop. Ci hanno schiacciato in faccia la fatica, ma con dolcezza.
Ora però, a distanza di anni dal mio esordio, tra comunità inclusiva e aree attrezzate, si rischia di considerare la strada (qui in senso ampio, l'ambiente fisico e sociale dove ha luogo la nostra pratica) come un fattore puramente accidentale, se non addirittura una scocciatura. Ultimamente stanno nascendo tanti grandi atleti: in pochi anni e con tanti strumenti diventano bravissimi. Ma spesso mi sembrano così immaturi, sbilanciati.. Credo che l'esposizione alla strada faccia maturare alcune aree che la sola pratica non tocca. Penso che lo stare immersi nella realtà selezioni un atteggiamento istintivo, sia già di per sé uno schiaffetto correttivo. Ben diverso dal pensare a come montare un video per far sembrare le nostre vite ancora più invidiabili agli amici di FB.
Certo, il Parkour ha la sua cultura strana, specifica, in divenire. Spesso è lontana dalle altre culture di strada: ad esempio siamo più coscienti della nostra salute, stiamo attenti a non “rovinare” gli spot dove ci alleniamo. Io per primo mi sono speso perchè Skate, Hip-hop e altre discipline non venissero appiattite ad una sola dimensione, schiacciate una sull’altra, ma se ne riconoscessero la diversità e la ricchezza. Beh, una delle ricchezze del Parkour è anche che nasce dalla strada: non è l’unica figlia, ma sempre quella è la sua mamma.

Il morale della favola secondo me: parte di un praticante è la sua conoscenza diretta della strada, la sua esperienza personale nell'unico ambiente reale che ci è rimasto il privilegio di attraversare tutti i giorni. Questa roba è poco visibile ma ben più utile allo stesso praticante di qualche salto sbloccato.