giovedì 6 novembre 2014

Personali Memorie di Strade





Ascolto Fritz da Cat 950 in streaming dal mio nexus 5: riaffiorano immagini e luoghi, era tutto molto diverso. Ricordo di aver preso la cassetta in omaggio con AL: era la fine del 1900, avrò avuto si e no 15 anni. Ci vestivamo largo e male, non avevamo ancora il telefonino, youtube non esisteva, le idee giravano a 56k, su carta o nelle parole dei vecchi seduti attorno al fuoco. Lo scenario era molto diverso da ora: in piazza si vivevano i pomeriggi, chiacchierando, disegnando, ballando; non c'era altro modo di essere social. Ascoltavamo gente guasta e ballavamo sugarhill gang.
Ma facciamo un passo indietro.
Fin da molto piccolo ho sempre scorrazzato per il mio quartiere (uno splendido e tranquillo centro storico) arrampicandomi in giro, giocando a pallone (poco, ero scarso) e a elastico "con le femmine". Come tutti, allora, si stava fuori.
Ma quello che mi ha cresciuto è iniziato alcuni anni più tardi.


Ero ancora alle medie, sarà stato il '96, quando cominciai a prendere la funicolare e poi il bus per andare al Piazzale degli Alpini. Allora un gruppo di ragazzi sui vent'anni si trovava là a bere birrette, fumare e skateare. Al tempo gli skaters (almeno quelli di Bergamo) erano fortemente influenzati dalla cultura punk e per me erano super fighi. Ma immaginate un bimbo di 13 anni (ne dimostravo si e no 11) in mezzo a questi.. Beh, col senno di poi credo che il loro background punk, così incline alle stranezze, abbia permesso che mi tollerassero con curiosa noncuranza. Appoggiavo l'eastpack sulla stessa scalinata su cui lo appoggiavano gli altri, li guardavo e ne imitavo i movimenti, ogni tanto ricevevo qualche consiglio; quando mi sentivo particolarmente coraggioso facevo delle domande. Nei mesi guadagnai il saluto di alcuni di loro, altri mi hanno sempre ignorato. È stata una scuola, imparavo come mostrare rispetto e come ottenerlo a mia volta da chi, per la prima volta nella mia vita di principino, non era affatto tenuto a ricambiare. Tutto ciò che ho ricevuto me lo sono guadagnato sul campo.
Ero diventato uno skater e cominciavo a passare parte del mio tempo in strada: vedevo barboni ubriachi, ragazzi disperati si facevano le pere nelle cosce, i poliziotti ci cacciavano e le anziane signore cambiavano strada. Intendiamoci, la situazione bergamasca non era granché hardcore rispetto ad altre scene di quegli stessi anni, ma certo era ben diversa dal cortile dell'oratorio.
Qualche anno dopo feci una delle esperienze che più mi hanno cambiato nella vita.

Quell'anno ero in vacanza a La Spezia e avevo fatto un amico che scriveva sui muri. Passava buona parte delle sue giornate nel cortile vuoto di una scuola insieme alla sua cricca, era agosto e la scuola media Fontana era chiusa. Passarono almeno due settimane prima che si decidesse a portarmi con lui. Doveva essere sicuro che non gli facessi fare figuracce, doveva prima istruirmi sulle basi. E io non aspettavo altro che di imparare tutto ciò che potevo. Così fui introdotto alla Cultura dell'Hip-hop.
La prima cosa che mi spiegò erano le 4 colonne: il writing, l'mcing, il breaking e lo scratching. Mi diceva che bisogna saperne di tutte e quattro per diventare un bboy. Mi spiegò che portavano i pantaloni larghi per ricordare i fratelli del Bronx, costretti a vestire i pantaloni dei fratelli maggiori; mi spiegò che non doevo far vedere le mutande, però, che era segno di scarso rispetto. Mi fece provare a girare i suoi dischi, mi fece mettere in rima delle parole, mi insegnò toprock e sixstep, mi disse di prendere carta e penna e disegnare il mio nome. Dopo giorni di pratica si ritenne soddisfatto e mi portò alla scuola.
Verso le tre entrammo nel giardino della scuola (ma com'è che nessuno li cacciava?), sul cancello d'ingresso la targa d'ottone, un tagger rosa colante riportava: Fontana Family. C'erano una quindicina di ragazzi e ragazze, dai 13 anni ai 30, alcuni seduti per terra, altri in piedi, parlavano, qualcuno disegnava. Al nostro arrivo poco scalpore, qualche ciao, qualcuno stringe il peace al mio Virgilio, nessuno lo stringe a me. Dopo qualche minuto di imbarazzo mi siedo e tiro fuori il blocco, disegno. Ad un certo punto uno dei vecchi prende parola e annuncia a tutti il programma del pomeriggio, in un angolo piastrellato i breakers avrebbero cominciato ad allenarsi, sulla gradinata c'erano fogli e penne per chi voleva disegnare, alla panca stavano per cominciare a fare del freestyle. Erano tutti invitati a fare ciò che preferivano e chi non faceva un cazzo era guardato male: poser.
Quel giorno lo ricordo bene, anche se ho la memoria di un pesce rosso. Rappai: stavo nel cerchio ad aspettare il mio turno col cuore in gola, ripassando le 3 rime che mi ero preparato, incerto. Poi ballai: mostrai il mio toprock rigido come un bastone, un sixstep meccanico. Divorai tutti i freez che mi mostravano, qualcuno si stupì. Ricevetti i complimenti di un po' dei vecchi. Quando ce ne andammo mi strinsero il peace, ero diventato un bboy.
L'esperienza che feci quell'agosto la riportai a casa con me e la coltivai. A Bergamo non trovai una comunità aperta e amichevole come la Fontana Family e mi dovetti adattare, fu utile anche quello.
Passai molti anni a ballare sotto i portici "dei tappeti" prima, di Dante Square poi. Conobbi un sacco di gente, mi trovai dentro agli scazzi, presi sberle, qualche volta scappai dalla polizia. Incrociai i vecchi di Bergamo: era il tempo dell'obelisco, dei gradoni, dei bordi delle aiuole, di piazza Dante e dei propilei. Il rispetto ha sempre contato più del talento. Furono grandi anni, guardavamo L'odio e I guerrieri della notte, stavamo fuori notti intere e ci divertivamo un sacco: le cose grosse più le piccole per crescere. L'Hip Hop ci spinse a riflettere anche sul rapporto tra giusto e lecito. Fu questa la nascita, per molti di noi, della coscienza politica: la coscienza parla di una coscienza come arma. Ma questa è un'altra storia..

Anni dopo arrivò il Parkour, flash forward di quasi 10 anni: eccoci ad oggi.
La comunità del Parkour è stata la più inclusiva e aperta che io abbia mai incontrato. Ad ogni nuova leva vengono spiegate le basi e corretti gli errori più grossolani. Durante il primo condizionamento si viene solitamente aspettati e motivati. Altro che ostilità o noncuranza. Credo che questa cultura della trasmissione ci sia arrivata direttamente dai primi praticanti: così Laurent ci ha raccolti a caso sotto la Dama del Lago quell'autunno, così Stephane e Thomas ci hanno trattati in quei lontani primi workshop. Ci hanno schiacciato in faccia la fatica, ma con dolcezza.
Ora però, a distanza di anni dal mio esordio, tra comunità inclusiva e aree attrezzate, si rischia di considerare la strada (qui in senso ampio, l'ambiente fisico e sociale dove ha luogo la nostra pratica) come un fattore puramente accidentale, se non addirittura una scocciatura. Ultimamente stanno nascendo tanti grandi atleti: in pochi anni e con tanti strumenti diventano bravissimi. Ma spesso mi sembrano così immaturi, sbilanciati.. Credo che l'esposizione alla strada faccia maturare alcune aree che la sola pratica non tocca. Penso che lo stare immersi nella realtà selezioni un atteggiamento istintivo, sia già di per sé uno schiaffetto correttivo. Ben diverso dal pensare a come montare un video per far sembrare le nostre vite ancora più invidiabili agli amici di FB.
Certo, il Parkour ha la sua cultura strana, specifica, in divenire. Spesso è lontana dalle altre culture di strada: ad esempio siamo più coscienti della nostra salute, stiamo attenti a non “rovinare” gli spot dove ci alleniamo. Io per primo mi sono speso perchè Skate, Hip-hop e altre discipline non venissero appiattite ad una sola dimensione, schiacciate una sull’altra, ma se ne riconoscessero la diversità e la ricchezza. Beh, una delle ricchezze del Parkour è anche che nasce dalla strada: non è l’unica figlia, ma sempre quella è la sua mamma.

Il morale della favola secondo me: parte di un praticante è la sua conoscenza diretta della strada, la sua esperienza personale nell'unico ambiente reale che ci è rimasto il privilegio di attraversare tutti i giorni. Questa roba è poco visibile ma ben più utile allo stesso praticante di qualche salto sbloccato.